Mi interrogavo in questo periodo sul valore, il senso e il significato del verbo “educare”. E in relazione a questo mi domandavo anche qual è l’azione educativa che opera il servente del Gioco del dipingere all’interno del Closlieu.
Il verbo “educare” viene usato al giorno d’oggi per indicare talmente tante cose, e spesso a sproposito, che è davvero importante fare qualche riflessione. Al di là della figura professionale dell’educatore (riconosciuta normativamente solo da qualche anno), ognuno di noi quando si relaziona con il bambino compie un atto educativo, agisce sulla formazione e la crescita del bambino o della bambina che ha di fronte.
Vorrei partire da una frase del prof. Luigi Secco, uno dei padri della pedagogia interculturale in Italia: “Parlare di educazione significa riferirsi all’azione pratica, ovunque presente e verificatasi in tutti i tempi, per cui la generazione più adulta si “piega” verso la più giovane per aiutarla a sviluppare quella capacità di cui ciascun uomo necessita per inserirsi utilmente nel contesto sociale del tempo. Il fine specifico dell’educazione è portare all’autonomia.” [Portera A., Secco L., Bohm W. “Educabilità, educazione e pedagogia nella società complessa”, Novara, UTET, 2007 – p. 3].
L’educazione “è un’azione pratica”
Ciò implica che ogni nostra azione ha un valore e ha delle conseguenze (positive ma anche negative) sulla persona che abbiamo di fronte. Chi segue il mio blog sul canale Telegram ricorderà che qualche mese fa ho accennato al bagaglio di memorie che ognuno di noi si porta dietro e che spesso emerge dall’inconscio in modo automatico, per i modelli che abbiamo ricevuto e per le esperienze che abbiamo vissuto. Se da un lato dunque bisogna fare i conti con questo bagaglio e affinare istinto e sensibilità, dall’altro bisogna avere chiari il fine educativo, i contenuti, le modalità, i mezzi, la relazione con il bambino o la bambina e l’ambiente. Non si può improvvisare e lasciare al caso, alla spontaneità o alle emozioni. E’ a mio parere utopico pensare che il nostro ruolo sia solo quello di facilitare, sostenere, essere presenti senza intervenire mai. La nostra azione è quindi pratica, è proattiva (attiva nello stimolare l’attività del bambino) e bisogna aver consapevolezza di questo.
All’interno del Closlieu, il servente del Gioco del dipingere serve il gioco e attraverso gesti, parole e semplici importanti regole compie una vera e propria azione educativa.
“La generazione adulta si piega verso la più giovane”
L’educazione è un atto di umiltà dell’adulto che si mette all’altezza del bambino e non in una posizione di maggior potere. Ma ciò non significa “alla pari” perché l’adulto deve avere chiaro il suo ruolo e la sua responsabilità nell’atto educativo. Quello della “responsabilità” è un concetto davvero centrale: chi educa deve “rispondere delle proprie azioni” (responsabilità) e non può delegare questo al bambino o alla bambina in nome della natura e della spontaneità. Io vedo spesso situazioni in cui l’adulto in nome del “rispetto della volontà del bambino” non si prende la responsabilità di quanto accade e questo ha gravi riflessi sul bambino che è chiamato così a compiere scelte troppo grandi per lui. Spesso questi bambini sono come conseguenza ansiosi, agitati, “difficili da gestire” (ma non è il bambino in sé difficile, siamo noi non in grado di assumerci la responsabilità). Il bambino ha bisogno di un’azione ferma da parte dell’educatore per poter conquistare l’autonomia e la libertà. Il problema è come l’educatore esercita la sua autorità: in termini autorevoli o autoritari? Ovviamente l’educatore deve essere autorevole, mai autoritario, e deve conquistare la fiducia dell’educando per far si che esso si convinca della direzione da prendere, non che la subisca.
In quest’ottica il servente del Gioco del dipingere deve “piegarsi” verso la persona che dipinge, ma mai delegando alla spontaneità, all’istinto e all’improvvisazione il suo ruolo. Se da un lato crea le condizioni affinché la Formulazione (traccia naturale) si manifesti, rispettando i processi naturali e la persona meravigliosa che ha di fronte, dall’altro deve aver chiaro che è comunque lui il direttore d’orchestra, colui che fissa i limiti e definisce le regole, che apporta i valori del rispetto, dell’ascolto, del non giudizio, della non competizione. È anche grazie all’azione educativa del servente che chi dipinge potrà conquistare la vera libertà espressiva. Se il servente avesse solo un ruolo di sostegno, nulla accadrebbe e tutto andrebbe alla deriva.
“Per aiutare – la generazione più giovane – a sviluppare quella capacità di cui ciascun uomo necessita per inserirsi utilmente nel contesto sociale del tempo”.
Sono una grande sostenitrice dei processi naturali di sviluppo, del rispetto della natura del bambino e ho una grandissima fiducia nelle sue potenzialità e capacità, ma bisogna sempre aver presente che i bambini e le bambine al giorno d’oggi non crescono in un villaggio sperduto in mezzo al nulla dove tutto è buono e bello. I bambini vivono in una società con aspetti negativi e positivi e devono imparare a vivere in questa società in tutte le sue dimensioni in modo autonomo, al punto da essere protagonisti anche di un cambiamento per migliorarla. Devono imparare a relazionarsi con gli altri, a conoscere i valori, le regole, le dinamiche sociali e relazionali, ad affrontare le difficoltà. L’atto educativo deve essere quindi una continua ricerca di equilibrio tra ciò che facciamo per proteggere e mettere in sicurezza il bambino o la bambina e ciò che mettiamo in atto per garantirgli la possibilità di fare esperienza.
All’interno del Closlieu la persona vive la realtà di una piccola società ideale, ma non è tutto facile, tutto bello e tutto piacevole. Closlieu letteralmente significa “luogo protetto” perché chi dipinge è protetto da tutto ciò che lo può condizionare, preoccupare o confondere. Ma allo stesso tempo ogni persona vive una dimensione molto reale di relazioni, di scambi e di condivisione e comprende il valore del non giudizio, della non competizione, del rispetto per gli altri e per le cose. Si confronta con se stesso, con le proprie capacità ma anche con i propri limiti, con le proprie gioie ma anche paure e vive dinamiche di relazione che non sempre sono idilliache. Ma proprio grazie all’azione educativa del servente e alle condizioni, settimana dopo settimana, mese dopo mese, assorbe un nuovo modo di vivere con gli altri e con se stesso e può davvero essere se stesso in mezzo agli altri.
In quest’ottica è importante fare una riflessione anche sulla parola “educazione”.
Secco, nello stesso libro [p. 10], scrive: “L’uomo è educato per diventare quello che può e quindi quello che deve diventare. Per ogni soggetto sarà la propria e specifica forma migliore di vita la finalità da conseguire in educazione”. Io fino a poco tempo fa pensavo alla parola “educazione” solo in termini di “ex-ducěre”, che letteralmente significa “tirar fuori – condurre fuori” quello che già c’è, le potenzialità del bambino e della bambina, il meglio che c’è in loro (le intelligenze, le passioni, le emozioni,…). E quindi ho sempre portato l’attenzione al rispetto della natura della bambina o del bambino, alla sua identità, alle sue disposizioni pensando all’educatore come colui che crea le condizioni e non ostacola. Ma non vedevo l’altro aspetto determinante, che di fatto attuiamo ogni giorno nella quotidianità quando ci relazioniamo con i bambini e le bambine.
Affinché il bambino o la bambina sviluppi “la propria e specifica forma migliore di vita” non si può non contemplare l’altra radice della parola educazione: “eděre” cioè “nutrire – mettere dentro”. Questo aspetto l’ho sempre preso poco in considerazione perché vedevo la questione nell’ottica di Maria Montessori che diceva “i bambini non sono dei vasi da riempire”. E infatti non sono vasi da riempire, ma se per “mettere dentro” intendiamo “nutrire”, “apportare” il meglio della cultura (tutto ciò che di meglio l’uomo ha sviluppato: la conoscenza, l’esperienza, i valori, le regole, …) ecco che tutto cambia: il bambino non può svilupparsi da solo senza un’azione da parte dell’adulto. La natura non è sufficiente.
Quindi educare significa da un lato condurre fuori, lasciar emergere, favorire, tutto quello che è natura e dall’altro nutrire, apportare tutto il meglio della cultura.
Per “educěre”, e quindi per creare l’ambiente e le condizioni ottimali e non ostacolare ciò che la natura ha previsto, bisogna conoscere sia ciò che la natura ha previsto per l’essere umano, sia ciò che appartiene alla natura del bambino o della bambina che abbiamo di fronte.
Per “eděre” bisogna invece sviluppare un’attenzione, una sensibilità e una consapevolezza straordinarie per ciò che scegliamo che entri nel bambino per formare la sua identità, la sua coscienza, il suo essere. Ogni pensiero, gesto, parola, e soprattutto ogni azione che compiamo entra e si fissa sul bambino.
Dunque credo sia davvero importante prendere coscienza di questo ruolo di responsabilità che abbiamo tutti, non solo come genitori, nonni, educatori o insegnanti. Ogni adulto che il bambino incontra, apporta qualcosa, nutre qualche dimensione del suo essere e spesso vedo poca consapevolezza rispetto a questo, anche in contesti dedicati all’educazione.
“Il fine specifico dell’educazione è portare all’autonomia”.
Cos’è l’autonomia? Lascio a voi, per ora, la riflessione su questa domanda.
Mi riservo di dedicarci il prossimo articolo perché è un tema molto ampio legato anche al concetto di libertà, quindi a presto! #staytuned
Maria Pia Sala
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